“Darsela”. Così si chiama, in Veneto, il gioco che consiste nello scappare, per non essere toccati ed appunto “riceverla” dal malcapitato che “ce l’abbia”. Chi viene toccato sarà poi a sua volta colui che dovrà inseguire gli altri, per liberarsene. Sì perché è sufficiente fare questo, beati bimbi, per non “averla più”: passarla ad un altro. Che cosa sia poi, questa “cosa” da cui ci si può liberare ma da cui si può esser segnati, nessuno lo sa.
Marco è sudato, corre ma non riesce a prendere nessuno. Ha sei anni, è giugno e fa molto caldo. Gli altri lo deridono, lo prendono in giro, stanno ben distanti da lui. Ne punta uno, che vede a stento, ha le lacrime agli occhi. Corre di scatto in avanti, ma poi se ne avvicina un altro e quell’uno diventano due, il suo slancio perde di senso e si ferma. Gli altri bambini hanno fatto un cerchio, tutto intorno. Adesso ridono davvero troppo forte. Lui è quello che ce l’ha, gli altri invece non ce l’hanno. E’ semplice: per questo ridono. Allora Marco cambia strategia ed è felice di averci pensato. Punta quella che sa essere la più debole. Anna ha sette anni, una più grande, ride meno degli altri e gli è simpatica. Quasi lo guarda con dispiacere. Però Marco sa che Anna corre meno veloce di lui, questo basta, per Marco è una situazione senza uscita. E’ pronto a tutto, non vuole piangere e non vuole più essere distante dagli altri, vuole essere nel cerchio, con loro. Corre trattenendo il fiato, all’improvviso. Anna capisce subito che è lei l’obiettivo, sembra per un attimo chiedergli il perché, lasciando appeso l’occhio sinistro a quelli di lui, mentre gira la testa dall’altra parte, per scappare via. Chiede persino aiuto agli altri. Ma nessuno può aiutarla. Toccare Marco significa prenderla. Una mano fatta un artiglio, in cui Marco ha messo tutta la violenza che può concepire, tocca Anna. Lui è raggiante. Il cerchio adesso ha un nuovo centro, con le guance bagnate.
C’è della memoria in questo gioco, che in certe comunità è persino vietato. Si tratta di una memoria antica che parla di morbo, di contagio. Un gioco che non è così innocente, ma insegna molto bene cosa significhi, di punto in bianco, essere diversi ed individuabili oppure essere parte del grande insieme di quelli che, improvvisamente, temporaneamente e sotto almeno un punto di vista, si percepiscono tutti uguali.
Andrà tutto bene, si legge nei bigliettini lasciati in giro. Andrà tutto bene ci ripetiamo l’un l’altro. La realtà è che quando tutto questo sarà finito, sarà andato tutto bene solo per chi sarà andato tutto bene. Un pensiero, più d’uno, lo dobbiamo a tutti gli altri.
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