Non vietate la violenza, lenite il dolore.

Non vietate la violenza, lenite il dolore.

Non vietate la violenza. Lì fuori c’è buio ed in qualche anfratto, tra le case, nelle case oppure in un parcheggio lei si farà vedere ancora. Se le date la caccia, si farà più forte, perché imparerà a difendersi, proprio osservandovi. Se le rispondete a dovere, allora avrà vinto perché sarà entrata dentro di voi.

Da dove arriva il fumo se non dal fuoco? Ed cosa serve allora combattere il fumo, agitarsi, soffiare, aprire le finestre, urlare e lamentarsi, se il fuoco è in casa nostra?

La società si basa sulla competizione: altrimenti come farebbe a sostentarsi? Si vendono prodotti proprio perché acquistandone uno migliore si può “superare” chi ne ha uno peggiore od almeno, vien da dire, “non essere da meno”, essere “accettabili”. E se allora in fondo iniziassimo a pensare di noi stessi le stesse cose che pensiamo dei prodotti che acquistiamo? “Io vado bene?”, vien da chiedersi davanti a tutta la necessità di “essere competitivi” che ci viene gridata a gran voce.

E la competizione cos’è? E’ “sana” come quella tra un gruppo di amiche che giocano a pallavolo oppure no? Perché nella “competizione” che questa società instilla nei suoi uomini e nelle sue donne io avverto il senso profondo della minaccia. “Se non sarai competitivo abbastanza, allora non avrai il lavoro”, non viene detto, ma è tacitamente suggerito. Voto di uscita dall’istituto in cui si è studiato, esperienza più o meno prestigiosa, master… tutto aiuta a creare un buon curriculum. Ogni azienda vuole essere più produttiva, più competitiva, ridurre le spese, essere più leggera, flessibile, resiliente.

“Risorse umane”. Si utilizzano dalla fine della loro istruzione, con l’ingresso nel “Mondo del Lavoro”, fino a che non sono più in grado di “funzionare”. Proprio come le macchine: la parola “umane” serve a distinguere queste risorse da quelle meccaniche, dai beni inventariabili, non serve ad altro. E le “risorse umane” vengono scelte sulla base di una selezione, competitiva anch’essa. Alla competizione d’altra parte veniamo abituati fin da scuola, fin da quando si può farlo. “A fin di bene”, viene da dire. Ma il bene di chi?

Il bene della persona, così potrà affrontare gli altri in tanti duelli metaforici, per avere un lavoro. Altrimenti finirà sotto un ponte. Quindi bisogna correre: per sopravvivere serve il denaro.

Il bene della società: più aziende competitive significa più denaro nelle casse dello Stato. Dobbiamo pur competere con gli altri stati? Cosa penseranno altrimenti di noi?

Quindi il fine, il movente della corsa è il denaro, cioè la materializzazione della possibilità stessa del provare piacere: più denaro si possiede, più piacere si può ottenere (la felicità, invece, è un’altra cosa, ma questa è un’altra storia e la si dovrà raccontare un’altra volta).

E’ facile sentirsi soli in una società come la nostra? Chiedetelo alle ragazze ed ai ragazzi. Chiedetelo e guardate i loro sguardi. Qualcuno di loro può stare così male e sforzarsi così tanto di sorridere ad oltranza da diventare davvero stanco. La solitudine nel frattempo avanza, toglie le speranze e fa diventare tutto buio. Allora quella sensazione di non essere abbastanza, che già c’era, sussurrata magari, diventa un macigno da portarsi sulle spalle.

Ci sono giorni in cui la vita sembra finita. Finita e basta. Avevamo qualcosa che stringevamo tra le mani ed avevamo paura di perderlo. Un lavoro, una persona, un sogno. Forse abbiamo stretto troppo? Forse è scivolato via? A volte è difficile capire cosa fare, abbiamo solo paura. Se stiamo bene, se siamo felici, allora tutto il mondo è una scelta, il mondo intero ci parla di opportunità. Quando abbiamo paura, quando siamo tristi, le scelte si riducono, muoiono con noi, una dopo l’altra. Ne restano una manciata, poi due, poi una. Se ci resta una sola scelta in mano, se il suo essere l’unica scelta che ci resta è dato dalla tristezza, dall’isolamento, dalla sfiducia, allora non c’è dubbio: si tratta della scelta sbagliata.

Chi si biasima per una scelta sbagliata? C’è sempre un’alternativa? Magari non per tutti? Viene da dire, pensandoci frettolosamente, che di qualunque scelta si tratti, chiunque stia scegliendo, scelga almeno il meglio per sé… ma pensandoci un po’ di più, potrebbe anche agire per farsi del male, per punirsi? Un suicidio può mai essere “il meglio per sé”? Può esserlo un omicidio? Ovvie risposte? Meno ovvio il cosa fare, perché serve fare qualcosa.

Non c’è legge che possa porre fine alla violenza, non c’è pena – nemmeno quella capitale! – che possa rendere la violenza “esterna” alla nostra società, alle nostre vite. Come si può pensare di mettere al bando la febbre alta? Un giorno dire “da oggi è vietato avere la febbre alta”, non avrebbe senso. Bisogna comprendere le cause che conducono alla febbre alta, bisogna lavorare duramente per comprendere le cause che conducono alla violenza. Ma nemmeno le cause si possono vietare: bisognerà lavorare altrettanto duramente per comprenderle e lenirle.

Se voglio evitare il dolore, cercherò di evitare di ferirmi, se ormai mi sono ferito, allora il dolore è inevitabile. La nostra società è una ferita aperta: il dolore è inevitabile. Per come è concepita, per come ci si vive, il dolore è inevitabile. Proviamo a pensare di lenire il dolore, proviamo a pensare come offrire una alternativa a chi pensa di non avere altra scelta, a chi può giungere a pensare che la morte sia la scelta migliore perché non riesce più a vedere nient’altro.

Prima che sia tardi per qualcuno, l’alternativa offriamola per tempo, a tutti.

A scuola.

Photo by Sydney Sims on Unsplash

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