La nostra società è un meccanismo complesso, enorme, per certi versi davvero straordinario. In questi giorni è sembrato vacillare e si è così paventato il ritorno di un passato (ormai per molti solo immaginato e mai vissuto) di carestia, di malattia. La società è forse qualcosa la cui esistenza diamo quasi per “scontata”, è solitamente solida, potente, magari spesso la riteniamo ingiusta, migliorabile.
La società somiglia ad una costruzione umana contro l’insicurezza.
Serve ad ordinare, a tenere accanto ciò che amiamo, a proteggerlo. Serve a controllare, addirittura a tentare di predire. Nel contempo si occupa di tenere fuori dalle nostre vite ciò che ci spaventa, ciò che ci atterrisce.
È allora proprio in questi momenti, in cui pare dover venire meno, che la società rivela di che cosa è fatta. Sì perché “società” non è case, ospedali, strade, scuole, luoghi di lavoro e palazzi, ma è un grande insieme di idee, un reame semantico, cioè una ragnatela di significati, tutti connessi tra loro: sono le idee che abbiamo rispetto a ciò che riteniamo giusto e sbagliato, l’idea che abbiamo di legge e del rispetto della stessa, l’idea che abbiamo dei nostri diritti e di quelli degli altri, e così via.
Quando la società traballa, allora ecco emergere le donne e gli uomini che la compongono e che dovrebbero esserne attori e non sudditi. Nel primo caso, il vivere civile sarà mantenuto in modo responsabile anche in assenza (o nell’impossibilità) di grandi sforzi dall’alto della catena del potere per esercitare il controllo, nel secondo si potrà assistere ad un carnevale di azioni dettate dalle paure e dai bisogni.
Cosa ci ha fatto diventare la nostra società? Cosa abbiamo fatto diventare la nostra società?
Magari ciò che abbiamo visto in questi giorni potrà diventare uno specchio in cui guardarci: osservare le nostre paure, i nostri bisogni, ma anche i nostri desideri.