“Il banco è fatto di legno pressato, me lo hanno insegnato a casa. Non è vero legno, è un insieme di tanti piccoli pezzetti, tenuti insieme con la colla. Sopra ci mettono poi un foglio di un altro materiale, liscio, che a passarci le dita i polpastrelli si inchiodano. Passo l’unghia dell’indice sul bordo: i pezzetti di legno li sento bene, anche senza guardare. Fanno tutti un gran casino. Non c’è nessuno in cattedra.
Guardo fuori dalla finestra. Come mi manca l’erba. La cosa che mi piace di più è stare sull’erba. Correre. È bellissimo. Di pomeriggio corro sempre. Tengo le braccia aperte perché mi sembra di afferrare l’aria, di correre più in fretta ancora. A scuola c’è un corridoio lungo, corriamo insieme, siamo in tre. Ogni giorno. Dopo un po’ non sento nemmeno più le gambe, diventano come una ruota, grande. Sento che vado da solo, non ci metto nemmeno più energia. È il momento più bello, sento solo l’aria.
Non è come stare fuori però. L’erba è un’altra cosa. Ma soprattutto sopra c’è il cielo. L’aria è fresca adesso che è primavera e dopo il cambio dell’ora non ho più la sensazione che il cielo mi cada addosso non appena torno a casa.
C’è rumore in classe. Entra lei, non vedo il suo volto, dice “silenzio”. Tutto si placa. Li guardo i miei compagni, stanno zitti. Guardano. “Silenzio”, ripete e svaniscono i miei compagni. “Silenzio”, ripete. Non ho più un astuccio, non ho più matite e pennarelli. “Silenzio”, ripete ancora, la donna che non è una donna e non ha mai avuto un volto. “Silenzio”, come una cantilena, che svuota i miei ricordi, si porta via il mio banco, si porta via il soffitto, le pareti, la mia cartella.
“Silenzio”, un’ultima volta. Porta via se stessa.
È verde il prato, non sono che un filo.
L’aria è fresca, in primavera”.
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