Un uomo, un cavallo, una spada. Cento, mille. D’un tratto lo scontro. Cosa abbiamo imparato?
Accadeva migliaia di anni fa, altre armi, altri rumori, stesso sangue, stessa carne lacerata, stessi occhi chiusi sulla vita, sulla propria e su quella degli altri. Cosa abbiamo imparato?
Al telegiornale bombe. Una dopo l’altra, esplosioni spettacolari. Religioni, economie, torti subiti ed inflitti. Madri, mogli, figli che si disperano, che promettono vendetta ed offrono lacrime in pegno: il riscatto sarà altro sangue, altri figli e figlie di uomini e donne che si affronteranno. Senza una fine, ciascuno con tutte le ragioni, ciascuno nel bene assoluto della sua visione relativa.
Un volto, due occhi guardano il cielo e la Terra, fanno esperienza della poesia dell’esistere. Un attimo dopo il caos delle armi. Cosa abbiamo imparato? Migliaia di anni e di guerre, incalcolabili morti. Religioni che non servono a molto e per le quali (anzi) si combatte: un fallimento fatto di divisioni che si somma ad un inutile sventolio di bandiere, di orgogli nazionali bisbetici, retrogradi, opprimenti. Stati nazione lacerati, inutili, prodotto degli eccidi di individui egocentrici che si definivano “sovrani”. Ogni pretesto è buono per la rabbia, ogni ragione è inutile alla pace, oggi ridotta ad un quieto stato di sfruttamento di risorse e popoli da parte di chi possiede un potere grande a sufficienza. Eppure siamo tutti donne ed uomini. Lo siamo?
Non c’è risposta, non c’è soluzione ai drammi ed alle guerre: non si può risolvere un problema che non è un problema, ma una matassa di filo spinato. Bisogna agire prima. E’ come voler cancellare una lite una volta che si è giunti alle mani. Bisogna agire prima. Non è il problema a dover essere risolto: è l’uomo. L’uomo va riformato, va ripulito, va spiegato cosa non funzioni in tutto questo che chiamiamo “normalità”. Sì perché si parte da lontano per fare un viaggio verso la rovina, non è qualcosa che si improvvisa. Bisogna prepararsi, capire o forse non capire nulla e dirigersi, ostinatamente, caparbiamente, verso la sofferenza ma ricercando il piacere, quello proprio, certamente.
Una carrozza diretta alla felicità (eterna, non è vero?), almeno così si lascia immaginare l’umana società: soddisfacendo ogni desiderio, lungo il cammino, ci si arriverà, no? Questa è la società del piacere, la società che esaudisce, che rende tutto disponibile a tutti (quelli che se lo possono permettere). E’ il Nuovo Paese dei Balocchi, ma qui non si diventa asini, bensì tristi, frustrati, rabbiosi. La società che promette. Beni e potere, vanto e posizione. Siamo noi, è il nostro desiderare, è il nostro ghermire, come rapaci la preda, come affamati il cibo. Da chi è creata la società, da chi è sognata la società, se non dall’essere umano? Le formiche non sono forse ciascuna una infinitesima porzione del formicaio? E dentro ogni formica non è forse rappresentata la regola di tutta la colonia?
La psicologia non può non dire, non può non agire. Ne ha tutto il diritto, non solo: ne ha il dovere. La direzione è quella del non ritorno, l’alternativa è la consapevolezza, da estendere (su di sé). Comprendere la donna, comprendere l’uomo. Gli appetiti, le paure. Comprenderci per comprendere la società, per comprendere anche chi sfrutta, ruba, uccide. Comprendere non per “perdonare”, ma per capire, per conoscere. Lontano dalla retorica vuota e per certi versi colpevole dell'”accettare”, dal “lasciare andare”, dal “qui ed ora”, entrando invece in modo dirompente in quella realtà fatta di silenzio, di tattile sensibilità a ciò che ci attraversa. Presto, perché il tempo forse non esiste, ma di certo esiste molta, troppa, sofferenza evitabile.
Foto di Birmingham Museums Trust su Unsplash