Come le ali di una farfalla

Come le ali di una farfalla

…la vita, finché viene vissuta concretamente, è di là sia da concetti che da immagini. Per comprenderla, bisogna immergervisi, bisogna prendere direttamente contatto con essa; staccarne un pezzo per esaminarlo vuol dire ucciderla: mentre pensate di averne penetrata l’essenza, essa è svanita, ha cessato di essere vita, è divenuta qualcosa di immobile e di disseccato.” (D.T. Suzuki, 2013, Saggi sul Buddhismo Zen, Edizioni Mediterranee, pag. 103)

Daisetsu Teitarō Suzuki nasce a Kanazawa, in Giappone, il 18 ottobre del 1870. Giunto al termine della sua lunga esistenza (morirà infatti a Tokyo, nel 1966, all’ età di 95 anni) avrà scritto moltissimo sul Buddhismo Mahāyāna ed in particolare sul Buddhismo Zen, rendendo i concetti di queste filosofie comprensibili all’Occidente. Un merito indiscusso, questo, per un uomo che durante la sua carriera ha goduto di enorme considerazione, alla stregua di un maestro, pur non divenendo mai monaco.

Il brano che apre questo articolo appartiene al primo volume dei suoi celebri “Saggi sul Buddhismo Zen“, apprezzati e letti fino ai giorni nostri. Che cosa ci vuole comunicare Suzuki?

Prima di tutto: la coscienza, la capacità di fare esperienza della realtà, è un fatto straordinario.

Qualcosa che è materia (tutto ciò che vediamo lo è) può, grazie all’esser cosciente, avere sensazioni ed attribuire a queste una qualità all’interno dello spettro i cui estremi sono il massimo piacere ed il massimo dolore di cui si possa fare esperienza. Questo è il più grande miracolo cui potrete mai assistere e, visto che state leggendo, ne fate parte. Certo, il problema è che, di solito, non ce ne accorgiamo.

La nostra realtà è tutto ciò che viviamo, fuori e dentro di noi: ma la realtà “interna” è frutto dei nostri ricordi, delle nostre aspettative, di timore e speranza, del ragionamento. È la realtà “esterna” a rappresentare invece la nostra vita, la nostra possibilità di fare esperienza. Suzuki ci dice però che basta lasciar sorgere un concetto od una immagine perché la nostra vita sia perduta. Se siamo seduti e guardiamo davanti a noi, allora guardiamo davanti a noi. Se siamo seduti, guardiamo davanti a noi e pensiamo, allora non stiamo più guardando davanti a noi.

Nell’ottica di Filosofia Clinica esistono solo due stati: o siamo attenti alla nostra realtà oppure siamo distratti dai pensieri. È tutto molto semplice: non vi è spazio per espressioni come “qui ed ora” od “altrove”. La mente è dov’è il corpo, sempre. Non si può essere “altrove”. E non vi è un'”ora”, vi è la propria realtà. O si presta attenzione alla propria realtà oppure si è distratti. Tutto molto semplice.

Immagini e concetti sono oggetti del pensiero: se il pensiero è attivo, la realtà continua a scorrere, ma sullo sfondo. Perché questo è drammaticamente importante? Perché comprenderlo è assolutamente urgente? Perché siamo mortali. Anche se siamo giovani, bellissimi, forti: stiamo morendo.

Esistono pensieri funzionali, esistono pensieri che non servono a niente. Se passiamo la nostra vita a prestare attenzione a questi ultimi, come il considerare per troppo tempo le nostre aspettative, i nostri timori, la nostra rabbia… allora stiamo semplicemente lasciando che la nostra vita scorra sullo sfondo. Questo, poiché siamo mortali, non è saggio: non è detto che ciò che verrà dopo sarà sempre migliore di ciò che è già capitato o sta accadendo.

Comprendere la vita è immergervisi. Se ne isoliamo una porzione, se la facciamo diventare oggetto di studio, se la concettualizziamo, la vita non è più vita: ricominciano i pensieri, ricominciamo ad essere distratti. La mente si rivolge verso se stessa, verso uno dei suoi mondi, bello o brutto che sia e rinuncia alla visione della realtà, il luogo in cui sono presenti le possibilità che abbiamo di fare esperienza, cioè di vivere.

Se con le dita toccherai le ali della farfalla, il volare non sarà che nella tua mente.

Se con le dita della mente toccherai la tua vita, vivere non sarà che nella tua mente.

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