Come immaginiamo la felicità? Sorrisi, magari risate fino a perdere il fiato e non riuscire più a parlare, mentre gli occhi lacrimano e sentiamo di toccare il cielo, forse per una volta di farne parte. Un istante meraviglioso, una sorpresa, una grande soddisfazione. Felicità è quindi una parola misteriosa, preziosa, sfaccettata. Ciò che per qualcuno è felicità, per un altro può essere banale o, magari, persino non desiderabile. Siamo davvero così diversi?
Biologicamente, siamo molto simili, non è vero? Eppure i “mondi” in cui viviamo sono tanto differenti da risultare quasi alieni, l’uno rispetto agli altri. Ciò che per qualcuno è importante, per un altro può essere banale o, magari, persino non desiderabile (no, non vi siete sbagliati, una frase molto simile l’avevate già letta un paragrafo fa).
Che cosa cambia allora? I concetti. Chi ci ha cresciuto possedeva, come è naturale che sia, una scala di valori, delle regole morali più o meno ferree, aspirazioni ed oggetti o situazioni a cui attribuire la capacità di donare la gioia (una bella casa, una bella auto, un titolo, un figlio, l’invidia degli altri, il loro rispetto…). In una parola: concetti. Simboli così potenti ed articolati da determinare l’esistenza stessa della persona che li porta con sé. Verrebbe da chiedersi allora chi sia il padrone di chi. Possediamo poi, ciascuno, il nostro carattere, le nostre inclinazioni innate e, viene da sé, ognuno di noi nel corso della sua esistenza ha compiuto le sue esperienze.
La felicità di ciascuno di noi è strettamente legata ai concetti che animano il nostro pensare ed il nostro agire e questo non è altro che il frutto di una miscela unica di inclinazioni, educazione ed esperienza. I concetti, vere e proprie “polarità” che si sviluppano tra i nostri neuroni, influenzando con la loro prospettiva sulla realtà il nostro vedere, riescono a farci perdere il contatto con ciò che abbiamo di più caro: la nostra vita.
Fino a che punto è utile parlare dei nostri concetti? Fino a che punto è saggio rimuginare ed interrogarsi rispetto ad una nostra idea o circa un avvenimento passato che ci ha feriti? Certo, comprendere è assolutamente lecito, ma vi è una sottile linea di demarcazione in questo caso tra l’utile e l’inutile (magari dannoso?): i concetti si nutrono dell’attenzione che doniamo loro, in modo da divenire più grandi e più forti, più capaci di influenzarci.
Oltre la linea dell’utilità, sarebbe quindi bene non procedere. Quale sarà il passo da non compiere, sarà difficile da determinare ed oltre questo l’unica strada possibile su cui posare i nostri piedi, sarà quella dell’autentica meditazione: fare in modo che tutti i concetti abbiano man mano un peso inferiore in noi, nelle nostre giornate e sulle nostre decisioni, permettendoci anche di vedere (questione davvero non banale) come già siamo influenzati da loro.
Anche se siamo tanto diversi, anche se le parole che usiamo sono davvero dissimili, la strada che conduce al silenzio della mente ed alla realtà è una soltanto, la stessa, per tutti noi. Magari la felicità si nasconde un passo prima dei nostri concetti e non somiglia ad un instabile tetto, da poggiare sopra questi.
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