La foto che vedete è mia, di qualche anno fa, forse una ventina d’anni fa. Una manifestazione di protesta, francamente non ricordo più nemmeno per cosa. E’ ritornata però utile, in un momento di grandi cambiamenti, per accompagnare l’articolo che state leggendo, il quale da un certo punto di vista possiede dei caratteri rivoluzionari, almeno per questa che era una pagina internet, poi diventata un libro ed ora di nuovo sul punto di diventare qualcosa d’altro: degli incontri dal vivo.
Sono in via di attivazione, a Padova, diverse esperienze che di fatto saranno progetti pilota per portare Filosofia Clinica tra le persone. I laboratori sono spazi di comunità, inclusivi ed aperti, in cui far convergere le proprie idee e le proprie energie e contemporaneamente il proprio vissuto. Potersi raccontare agli altri, ascoltare ed avvertire empaticamente le loro storie e le loro impressioni, creare insieme un senso di gruppo in questa difficile fase per tutta la popolazione, credo e spero possa significare molto.
Mi sono interrogato a lungo sul senso della parola “rivoluzione“, negli ultimi anni. Abbiamo tutti studiato molte tipologie differenti di lotte armate, anima dei manuali scolastici di storia: dalle vere e proprie guerre tra eserciti, alle lotte per i diritti, per i salari, per l’indipendenza, per l’autonomia, per una miniera, per un’accesso al mare… Eppure è rimasto quel senso di oppressione che, anche oggi, nonostante le sbarre siano poco o per nulla visibili, fa gridare più di qualcuno, ancora, alla rivoluzione. Se il senso di oppressione non lo avvertite, forse è il caso che ci veniate a trovare.
Da che cosa ci si vuole liberare? Dal sistema, viene risposto. Il “capitalismo”, oppure il “sistema-stato” nel suo complesso, o qualche altra forma di organizzazione, anche magari solamente rispetto ad uno dei suoi tanti livelli.
Dove si trovano allora, davvero, la legge ed il potere che regola e sostiene il sistema (qualunque esso sia) che tanto si vuole abbattere? Visto che di un nemico si tratta, tanto vale almeno dargli una collocazione, una forma, magari un nome. Che cosa si combatte? Con quali mezzi? Quali alternative si propongono?
Un concetto, prima di essere altrove, è proprio dentro di noi. Noi siamo il luogo dell’applicazione dei concetti, il luogo in cui il pensiero diventa azione. La cosa se vogliamo curiosa è che buona parte dei concetti che possediamo, in realtà ci possiede: apprendere qualcosa e giudicarlo sensato oppure averne paura, solo per fare due esempi, significa già averne una relazione attiva e quindi vederlo agire come sprone o limite ai nostri pensieri prima ed alle nostre azioni poi.
“Impara a memoria!“, si dice a scuola: un concetto appreso a memoria è comunque presente in noi e, che siamo d’accordo o meno, quando verrà il suo momento quell’idea sarà disponibile e facilmente reperibile, pronta a divenire una nostra opinione, una nostra azione. E’ pericoloso, non c’è dubbio.
Andare oltre la retorica di cosa significhi “libertà” è difficile perché il linguaggio è pur sempre un mezzo, una convenzione. Solo a scriverlo, questo concetto, evoca e delinea, spinge, a modo suo urla, protesta. Capire i concetti, capire i pensieri ad un livello profondo, esperienziale, significa togliere un po’ di potere a qualcosa che abbiamo dentro, non che esiste lì fuori. Il concetto di “dedizione”, giusto per fare un esempio o quello di “responsabilità” o di “eleganza”, sono in noi, non fuori di noi.
E sono pronti a diventare un problema alla prima occasione: spesso un concetto, implicitamente, esprime un certo grado di potere e di capacità di incidere su di noi, di influire sulle nostre scelte ed, a volte, anche di giudicarci. Il concetto di “intelligenza”, un altro esempio, con le sue fitte ramificazioni di aspettative, di timori, di traguardi tagliati o taglienti diviene un metro di giudizio al quale accostarci e così è per il concetto di “felicità” o per quello di “famiglia”, tra l’altro piuttosto legati tra di loro, più o meno dolorosamente.
Parliamone insieme.