“Il tempo è un concetto, scivoloso. Ancora prima di essere una realtà fisica (e non è nemmeno certo che lo sia davvero) è una forza mentale e sociale, di potenza immane, a cui siamo incardinati, agganciati, proprio come treni sulle rotaie.”
Questo diceva il professore, dall’alto dei suoi forse settant’anni ed altrettanti gessetti, immerso in un’aura di attenzione concessa a forza, da una granella di studenti avvolti, uno per uno, nelle mascherine ed impilati sui banchi lunghi dell’aula EF3, in un pomeriggio di autunno temperato con cura, come si farebbe con un pastello arancione. Il sole si abbassava come una persiana sul giorno, dietro alberi e profili di case, e lei li vedeva passare, gli umani, sulla strada spezzata dalle linee dei segnali, dei cartelloni, dei fili e delle insegne.
A. ricordava N., immaginava quanta strada avrebbe dovuto aver percorso per essere stata lì con lui e potergli tenere la mano, mentre si addormentava, mentre l’acqua di mare gli si asciugava tra i ricordi e l’aria lo abbandonava lieve lieve, come una piuma, alla terra. Se è vero che la vita è un lungo allenamento a lasciare andare, allora il nostro respiro è l’ultima cosa che dovremo salutare. Fa paura, ma non è la paura più grande per tutti, alcuni temono di più di doversi separare dal parlare, altri dal pensare, dipende da come siamo, non c’è una cosa che vada bene in assoluto, come per tante altre questioni.
Chissà se N. ne avrà avuta di paura, si domandava A. Era sempre stato coraggioso, tanto da riuscire a piangere, a volte. Eppure non era riuscito a liberarsi davvero ed aveva sofferto. Ma gli occhi grandi ed azzurri di A. gli piacevano tanto, ci rivedeva i suoi, ma con gambe più forti.
Ed il professore parlava e parlava, sorrideva, qualcuno gli rispondeva. La lancetta dei secondi, appesa al centro dell’orologio dell’aula, si sforzava di andarsene, un balzo dopo l’altro, fantasticando su quando ce l’avrebbe fatta, sicura che non poteva durare per sempre quel tenerle stretti i piedini, davanti a tutto il suo dibattersi.
A. vide la lancetta e capì la sua lezione più di quanto fece con quella del professore. La lancetta sorrise senza darlo a vedere ed A. prese le sue cose e scappò via dall’aula: una fuga lenta ed ordinata, nella quale si lasciò dietro una coda di cometa fatta di capelli lunghi e noia scura che si perse fino a svanire in quell’aria di parole sussurrate, non appena ebbe chiusa la porta dietro di sé. “La signorina se n’è andata, quindi è uscita, almeno per ora, dal nostro orizzonte degli eventi, cioè, rispetto all’universo rappresentato da questa stanza, non può perciò più influire su di noi, a meno che non stacchi l’interruttore generale dell’energia elettrica, ma questo è un altro discorso…”.
A. iniziò a camminare veloce. Rapida come un treno incastrato sulla sua rotaia. Ogni rotaia è una ferita sulla pelle del tempo. La sua dove l’avrebbe portata?
N. invece non poteva più andare da nessuna parte, fermo, immobile, senza tutte le cose che prima aveva e diceva, persino senza l’aria. Se è vero che per essere vivi siamo incompleti e se è vero che siccome siamo incompleti inseguiamo un equilibrio, allora l’equilibrio non può essere qualcosa di fermo, ma è più danzare con la mancanza. A. si sentì come si doveva sentire un funambolo: per non cadere doveva cercare l’equilibrio, però senza mai poterlo e volerlo trovare davvero. Solo così era viva. Lo capì in un istante: se l’equilibrio ce l’hai e basta, se non rischi più di perderlo, allora sei morto.
Si asciugò le lacrime, ma alcune caddero, stupendosi molto che le foglie facessero lo stesso. L’autunno si sentì più fresco, tutto d’un tratto, ed A. corse a casa, a cercare qualcosa di meno fondamentale del respiro, ma che le serviva tanto: un abbraccio.
(Daniele Rostellato, 24 novembre 2021)
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Se uno muore non va, rimane là!
Chi muore non è lui che se ne va,
ma tutti gli altri – che sembra rimangano:
invece quello resta, in realtà –
dove siamo da sempre, tutti quanti.
Ci resta di più ancora: non si dice,
infatti, “ci è rimasto” se uno muore?
E gli altri vanno, persi, tutto intorno –
in cerca di quel bandolo invisibile
che ti riporta là dove sei in pieno,
e non c’è più nient’altro da inseguire.
Chi muore sta – dentro l’eternità;
gli altri vagano in giro, come trottole.
E’ il risveglio finale: ritrovarsi
a casa, finalmente – sempre qua,
ma del tutto e per sempre; mentre i vivi
continuano a vagare dentro il sonno.
Così nella vertigine del tempo,
è il loro treno quello che va via.
(Ulisse Fiolo, 1 ottobre 2016)
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Mi risuona la poesia di Caproni
Biglietto lasciato prima di non andare via
“Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
È stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.”